Stelle in agonia

un po' di astrofisica...


La fase di “Gigante rossa”

Nel passato l’uomo era convinto che tutta la ricca congerie di astri scintillanti sulla volta del firmamento, rappresentassero la testimonianza divina dell’eternità. I termini di “firmamento” e di “stelle fisse” hanno sempre evocato appunto l’idea di una stabilità immutabile, trascendente alle vicende umane, una categoria di quei concetti assoluti ai quali il pensiero umano ha sovente fatto riferimento durante il proprio sviluppo storico. In realtà, come tutte le cose esistenti, anche le stelle hanno avuto un’origine e saranno destinate ad un’inevitabile fine. Gli astronomi ci insegnano ad esempio che l’astro del giorno, lo sfolgorante globo del Sole, irradia i suoi vitali torrenti di luce e di calore da molto tempo prima che la crosta terrestre fosse solidificata, e che le sue riserve energetiche non verranno esaurite che nei prossimi 8 miliardi di anni.

Ma non tutte le stelle si mantengono in “attività d’esercizio” per durate così lunghe e, d’altra parte, si conoscono molti astri che saranno destinati a durare sicuramente di più. Per esempio, stelle calde e massicce come alcune giganti bianche in Orione e nelle Pleiadi, e come Vega, Fomalhaut, Sirio, ecc., sono astri giovani ma destinati ad esaurirsi nel breve volgere di alcune centinaia di milioni di anni, dato che convertono la loro massa in energia radiante ad un tasso assai più elevato di quanto faccia il Sole. L’elemento critico che determina in modo irrevocabile l’evoluzione di una stella è dato dalla quantità di materia che rimase racchiusa nel suo globo alla conclusione di quel processo di contrazione gravitazionale tramite il quale l’astro prese corpo dalla materia diffusa interstellare. Sappiamo che il Sole consuma in ogni secondo di tempo una quantità d’idrogeno pari a 564 milioni di tonnellate, per convertirla in 560 milioni di tonnellate di elio mediante un processo di sintesi nucleare (fusione dell’idrogeno). Dal bilancio “spariscono” 4 milioni di tonnellate ad ogni secondo che rappresentano il corrispettivo d’energia radiante liberata durante la fusione dei nuclei secondo la celebre relazione E = mc2 .

Quattro milioni di tonnellate di materia dispersa nello spazio ad ogni secondo possono costituire, in assoluto, una grossa quantità, oppure una quantità trascurabile se riferita alla massa totale del Sole. Sta di fatto però che, a questo ritmo, in capo ad una dozzina di miliardi di anni, una stella di pari massa solare, avrà convertito in elio il 12% circa della totale disponibilità di idrogeno e, dato che il motore termonucleare funziona soltanto entro le regioni centrali della stella ove le temperature sono sufficientemente elevate (10-15 milioni di gradi) per mantener innescate le reazioni di nucleosintesi, al termine dei processi di fusione dell’idrogeno si sarà costituito, all’interno della stella, un nocciolo di elio circondato da un mantello di idrogeno intatto. Nonostante ci sia ancora combustibile a disposizione, la reazione termonucleare comincia a spegnersi poiché essa si inoltra in regioni stellari decentrate, ove la temperatura locale è insufficiente a mantenerla. La stella entra in crisi: dopo aver per miliardi di anni sfolgorato nello spazio, irradiando costantemente il suo fluido vitale sugli eventuali pianeti circostanti, la luminosità dell’astro prende improvvisamente a vacillare e l’intimo del suo corpo gassoso subisce una drastica convulsione. Al rallentamento del ritmo di produzione di energia interna, fa seguito un cedimento della relativa pressione radiativa che aveva finora coadiuvato la pressione dei gas a sostenere il richiamo gravitazionale verso il centro.

Gli strati gassosi cedono allora bruscamente e la stella si comprime, ma il subitaneo innalzamento della temperatura interna che ne consegue, è talmente elevato da portare il livello termico del nucleo d’elio intorno ai 100 milioni di gradi mentre, proporzionalmente, aumenta anche la temperatura dell’involucro di idrogeno che riprende a bruciare furiosamente. Ne deriva una violenta produzione di energia radiativa che fa sollevare gli strati gassosi esterni, e pertanto, ad una preliminare concentrazione del nocciolo stellare fa seguito l’espansione dell’atmosfera dell’astro che si dilata fino a riempire un volume migliaia di volte maggiore di quello primitivo. Nel contempo, alla rarefazione gassosa si accompagna un inevitabile abbassamento termico ed uno spostamento del colore della radiazione verso l’estremità rossa dello spettro elettromagnetico.

La stella agonizzante diviene pertanto una “gigante rossa”, categoria di astri corruschi e giganteschi alla quale appartengono Betelgeuse, Antares, Arturo. Il Sole sarà destinato a divenire una stella di questo tipo e, a quell’epoca, risulterà talmente dilatato che i suoi gas ardenti investiranno le orbite dei pianeti interni, forse fino a giungere a quella di Marte. Ma la vita sul nostro pianeta sarà già estinta, perché spazzata via in precedenza al momento del primo collasso del vecchio astro diurno. La struttura di una stella gigante, in questa fase, risulta complessa: infatti la fusione dell’idrogeno ora procede rapida in un involucro che circonda il nucleo interno di elio il quale, d’altro canto, viene continuamente accresciuto da ulteriore formazione di elio. L’elevata temperatura ivi regnante favorisce l’innescarsi di reazioni termonucleari di altro tipo: sono i nuclei di elio che cominciano ora a combinarsi  fra loro portando alla formazione, in una prima fase, del Berillio, in seguito del Carbonio, ed infine dell’Ossigeno. All’interno della stella coabitano in questo momento due tipi di reazioni che si svolgono in involucri separati e concentrici: quella dell’idrogeno all’esterno e quella dell’elio all’interno.

 

 Il “lampo dell’elio”

Ma la fase di gigante rossa non dura a lungo: in capo a qualche centinaio di milioni di anni anche il resto dell’idrogeno sarà completamente esaurito ed allora la stella prenderà a “sgonfiarsi” dopo aver abbandonato, eventualmente, nello spazio un leggero involucro gassoso sotto l’impeto dell’iniziale fase espansiva. La produzione di energia radiante è ora limitata al solo nucleo di elio che si è nel frattempo accresciuto ed addensato: al suo interno la temperatura va salendo rapidamente, 200, 300, 400 milioni di gradi.

A simili livelli termici, e se la stella è abbastanza massiccia (oltre 2 volte la massa attuale del Sole), c’è la possibilità d’innesco di reazioni nucleari ancora più complesse, le quali innalzano ulteriormente la temperatura interna, e che dall’elio, conducono via, via, al magnesio, all’alluminio, al silicio, fosforo, zolfo, ed infine al ferro.

Ciascuna di queste reazioni può mantenersi entro involucri separati nei quali vige la temperatura idonea; in ogni caso si tratta di processi estremamente rapidi che vanno da 20-30 mila anni per i primi citati, fino ad appena 1-2 anni per gli ultimi. Questo si capisce in quanto la disponibilità degli elementi reagenti diminuisce in proporzione alla complessità strutturale dei nuclei atomici. Per ritornare alla nostra stella di massa solare, l’innesco di fusione dell’elio è accompagnato da fenomeni fisici importanti: abbiamo fatto notare che il nucleo stellare, anche per il continuo accumulo di altro elio, diviene sempre più esteso e compatto.

Quando vengono raggiunte densità dell’ordine di alcune centinaia di migliaia o, addirittura di milioni di volte quella dell’acqua, gli elettroni liberi (e, del resto in quelle condizioni, essi non possono esistere che totalmente separati dai nuclei atomici) vengono anch’essi a trovarsi estremamente costipati e si cominciano a comportare come una sostanza superconduttrice di calore, alla stregua di un blocco metallico riscaldato. Ciò provoca un aumento del tasso di smaltimento dell’energia prodotta dalla stella che normalmente raggiunge l’esterno attraverso processi convettivi e radiativi entro la massa gassosa.

Ad incrementare vieppiù la dissipazione energetica interviene un secondo effetto che spiegheremo in poche parole. Con temperature interne di mezzo miliardo di gradi, l’energia elettromagnetica prodotta dalle reazioni di fusione dell’elio, risulta tutta “spostata” verso la produzione di fotoni altamente energetici, vale a dire raggi gamma. Questi ultimi interagiscono a volte con i nuclei atomici e possono dar luogo a coppie di elettroni e positroni (elettroni positivi) i quali, dal canto loro, generano flussi di neutrini e di antineutrini (neutrini dotati di un verso di rotazione opposto ai precedenti). Poiché i neutrini hanno  la facoltà di attraversare spessori inconcepibili di materia senza venir assorbiti, le cose vanno come se, in pratica, tutto il corpo stellare cominciasse a divenire trasparente e così una parte considerevole dell’energia prodotta prende ad andarsene con i neutrini. Il trasporto dell’energia stellare verso l’esterno tramite il meccanismo normale di radiazione-convezione viene pertanto sopraffatto in brevissimo tempo dai due nuovi meccanismi, quello di conduzione elettronica e quello d’irraggiamento neutrinico: la conseguenza è uno “spianamento” delle differenze termiche fra i diversi punti dell’interno stellare il quale tende a bruciare tutto alla medesima temperatura che si aggira ora sui 300 milioni di gradi.

A questo punto le riserve di elio cominciano a consumarsi furiosamente, ed un’ulteriore produzione di energia va ad aggiungersi a quella persa attraverso gli altri meccanismi dissipativi. In poche decine di milioni di anni tutto il combustibile arde in una specie di vampata nucleare che gli astrofisica hanno definito “lampo dell’elio”, dopo di che la stella comincerà a contrarsi drasticamente subendo anche, per ragioni d’instabilità interna, delle sensibili fluttuazioni di luminosità e di volume, che la condurranno al rango di stella variabile. Durante tali fluttuazioni potranno eventualmente distaccarsi parti degli involucri periferici che andranno a formare una nube gassosa in espansione del genere delle nebulose planetarie .

 

La nascita di una “nana bianca”

Non più sostenuto dalla pressione radiativa il nocciolo stellare in estinzione cede alfine sotto il proprio peso e collassa in un corpo di dimensioni planetarie in cui la densità sale a valori vertiginosi; le ultime reazioni, nel frattempo, continuano a bruciare nelle parti più esterne ove i gas, schiacciati dall’intensità crescente del campo gravitazionale  dell’astro in contrazione, cominciano d’altra parte ad esser soggetti a pressioni e temperature talmente elevate che ben presto si mettono ad irradiare luce e calore indipendentemente dai residui focolai di fusione nucleare. A questo punto abbiamo un astro di tipo nuovo, che rappresenta il relitto di una stella ormai estinta. Può essere considerato una specie di mostruosità non più estesa di 10-20 mila chilometri: l’interno è costituito da un nocciolo in cui la densità della materia raggiunge alcune centinaia di tonnellate per centimetro cubo, talché una sferetta grossa come un pisello verrebbe a pesare quanto una locomotiva! In questa parte centrale gli elettroni sono stati “spremuti” fuori dal violento processo di costipazione e costituiscono un fluido mobile, mentre i nuclei atomici (di elementi relativamente leggeri, carbonio, ossigeno, ecc. in quanto abbiamo preso in considerazione in partenza una stella di massa solare) sono così compressi fra di loro che risentono della reciproca repulsione elettrostatica suscitata dai protoni che essi contengono. In tal modo i nuclei atomici si dispongono su posizioni di equilibrio pressoché fisse, che possono essere assimilate ai vertici di un immane reticolo cristallino;  le parti centrali del relitto stellare non ubbidiscono più alle leggi dei gas, ma hanno acquisito piuttosto i caratteri della materia solida! Questa struttura reticolare di nuclei atomici è immersa nel fluido costituito dagli elettroni liberi per i quali vige una legge fisico-quantistica enunciata nel 1925 da Wolfgang Pauli, e detta del “principio di esclusione”, secondo cui gli elettroni non possono mantenersi troppo vicini fra loro se non per tempi molto brevi.

Le condizioni nelle regioni centrali di una "nana bianca" sono caratterizzate dalla disposizione dei nuclei atomici ai vertici di rigidi reticoli analoghi a quelli dei cristalli, entro i quali si agita un fluido mobile di elettroni liberi.

Tutto ciò comporta che l’enorme compressione a cui sono soggetti, produce negli elettroni un moto d’agitazione disordinata che può raggiungere anche velocità relativistiche (prossime, cioè, alla velocità della luce) se la densità è sufficientemente alta. E’ grazie a questo movimento che si viene a generare una contropressione atta a bilanciare il violento richiamo gravitazionale che, altrimenti schiaccerebbe ogni cosa. Tuttavia è interessante e sbalorditivo notare che, nonostante la temperatura d’agitazione elettronica corrisponda a milioni e miliardi di gradi, i nuclei posti ai vertici dei rispettivi reticoli non possono oscillare eccessivamente: perciò la loro temperatura intrinseca è assai bassa e, non esistendo altre sorgenti termiche in atto, il nocciolo del relitto stellare è da considerarsi del tutto freddo ed oscuro. Lo stato fisico in cui si trova è ben diverso da quanto ci offre la materia ordinaria: esso caratterizza la cosiddetta “materia degenerata” o “gas di Fermi” dal nome del celebre fisico italiano che ne descrisse per primo le proprietà. Il nocciolo di materia degenerata misura poche migliaia di km di diametro ed è circondato da un’atmosfera gassosa costituita dai residui involucri stellari nei quali, come abbiamo fatto notare, la temperatura, almeno inizialmente, può raggiungere alcune decine di migliaia di gradi. Il relitto cosmico splende così di intensa luce bianco-blu emettendo sotto forma di radiazione elettromagnetica l’energia che gli deriva dalla compressione dell’involucro gassoso sottoposto ad inarrestabile processo di contrazione gravitazionale. Non sono più le reazioni termonucleari a fornire energia all’astro ma esso si riscalda ed irradia rimpicciolendosi, così come faceva nelle epoche, ormai lontane, delle sue prime fasi di aggregazione dalla nube interstellare. Questo tizzone di stella è ciò che gli astronomi chiamano una “nana bianca”. Il numero stimato di oggetti celesti di questo tipo nella galassia assomma, forse a 4-5 miliardi e costituisce il 20 per cento di tutte le stelle anche se, nella ricerca statistica è facile commettere stime in difetto sul conto di quelli più lontani. Le nane bianche sono infatti astri molto piccoli e, anche se la loro brillanza specifica è elevata, tuttavia il flusso totale di luce emesso è scarso e ne costituisce un severo handicap all’avvistamento.

 

Il compagno di Sirio

E’ noto che, per la storia, il primo esemplare di nana bianca riconosciuto per tale, fu il satellite di Sirio del quale fin dal 1844 era stata dimostrata l’esistenza grazie al paziente lavoro d’osservazione di F. W. Bessel. Fisicamente Sirio fa parte dello sciame stellare dell’Orsa Maggiore, anche se è molto distante da quella costellazione; il movimento di cui è animato si proietta sulla volta celeste in uno spostamento progressivo che, come Bessel ebbe a notare, non è del tutto lineare ma presenta delle inflessioni che si ripetono ogni 50 anni.

Giustamente il nominato astronomo le attribuì alla presenza perturbatrice di un corpo che accompagnava la stella gravitandole intorno nel suddetto periodo. Dall’entità della perturbazione arguì che doveva trattarsi di un corpo di massa stellare ma, non essendoci nulla di visibile, Bessel concluse che il corpo incognito poteva essere una stella spenta. La “compagna oscura” di Sirio si sottrasse all’avvistamento fino al 31 gennaio del 1862 quando A. G. Clark, un costruttore americano di telescopi, ebbe l’idea di rivolgere alla fulgente Sirio la sua nuova lente da 46 cm destinata all’Università del Mississippi. Apparve un debolissimo puntino luminoso immerso nel fulgore della stella maggiore: il compagno non era dunque un astro del tutto oscuro anche se la sua luminosità appariva diecimila volte inferiore a quella di Sirio. Venne chiamato Sirio B e, poiché la distanza dell’astro maggiore, Sirio A, era conosciuta (8,7 anni luce) si ricavò con facilità la separazione media fra le due stelle che venne stimata dell’ordine dei 3 miliardi di Km, quanto cioè la distanza di Urano dal Sole. Fu possibile anche ricostruire le due orbite relative e ricavarne il valore delle masse: Sirio A contiene 2,5 volte più materia del Sole, mentre Sirio B possiede pressoché la massa solare, ma è cinquecento volte meno luminoso del sole. Si pensò allora che il compagno di Sirio non era una stella morta, poteva ben essere una stella moribonda agli ultimi guizzi. Ma la stranezza di Sirio B insorse in tutta la sua imprevedibilità allorché W.S. Adams, nel 1915, cominciò a studiarne lo spettro. La luce era bianca, anche se fievole, ed indicava che la temperatura superficiale dell’astro si aggirava sugli 8000° C, di poco inferiore a quella di Sirio A (10000° C) Come spiegare allora la bassa luminosità? Essa non poteva derivare che dall’anormale piccolezza dell’astro stesso, le cui dimensioni prevedibilmente non superavano i 50 mila Km. Una massa pari a quella del Sole costipata in un globo non più grande di Urano o di Nettuno era qualcosa di veramente nuovo e stupefacente: la forza di gravità superficiale avrebbe superato di 20 mila volte quella alla superficie terrestre e i materiali di Sirio B dovevano possedere una densità favolosa, di 30-40 Kg per cm cubo, tremila volte quella del nucleo interno della Terra!. All’epoca in cui l’Adams delineò queste caratteristiche, esse risultavano di difficile comprensione agli studiosi, poiché la conoscenza della struttura intima dell’atomo stava iniziando i suoi primi passi. Oggi sappiamo che i nuclei atomici occupano un quattromiliardesimo soltanto del volume dell’atomo integro e che dunque è concepibile che, quando la struttura dell’atomo si sfascia, la materia viene ad avere a disposizione uno spazio considerevole nel quale può concentrarsi allo “stato degenerato”.

Procione B è anch’essa una nana bianca compagna alla splendida Procione A e la storia della sua scoperta (Schaeberle, 1895) segue molto da vicino quella del compagno di Sirio.

 

Fotografia della stella Sirio e del suo compagno. Nel grafico sopra è mostrato lo spostamento apparente di Sirio durante il periodo 1860-1950. La traiettoria è ondulata per la presenza di "Sirio B".


Proprietà relativistiche delle Nane Bianche

In seno alle nane bianche molte situazioni fisiche si avvicinano a quelle condizioni estreme della materia per le quali iniziano a divenire sensibili alcuni fenomeni previsti dalla relatività. Abbiamo già parlato degli elettroni che si muovono a velocità relativistica entro le regioni centrali delle nane bianche; la teoria prevede ancora che il continuo spazio-temporale, che rappresenta il tessuto relativistico in cui è immerso tutto l’Universo, deve risultare deflesso intorno a masse molto compatte. In particolare, lo spazio circostante una nana bianca “si incurva” in proporzione all’intensità del campo gravitazionale locale. Anche nelle immediate vicinanze del Sole lo spazio è più curvo che altrove e un raggio di luce vi si inflette come sta a testimoniare il fatto che la posizione delle stelle radenti il disco solare (ovviamente visibili solo in condizione di eclissi totale) risulta leggermente diversa (2” d’arco all’incirca) da quella osservata senza il Sole frapposto. Logicamente, è difficile poter osservare un fenomeno analogo durante l’avvicinamento apparente di una nana bianca all’immagine di una stella posteriore, tuttavia c’è da prendere in considerazione un altro effetto, quello legato al “rallentamento” del ritmo del tempo che si accompagna alla deformazione relativistica dello spazio. Sappiamo che il fenomeno di propagazione del flusso luminoso d’un certo colore corrisponde a quello di un’onda d’energia elettromagnetica nella quale le caratteristiche elettriche e magnetiche mostrano una variazione periodica con una frequenza che è propria al determinato colore di luce. Il rallentamentodimensioni a confronto del tempo nelle immediate vicinanze di un campo gravitazionale intenso è chiamato “effetto Einstein” ed agisce nel senso di far decelerare gli orologi e qualsiasi altro meccanismo oscillatorio. Quindi la frequenza dell’onda luminosa diminuisce, che è come dire che la sua lunghezza d’onda si accresce e ne deriva uno spostamento verso il rosso da parte di tutto lo spettro elettromagnetico della sorgente: questa, in definitiva, appare più rossa del reale. Per un raggio di luce gialla proveniente dal Sole, l’entità dello spostamento in lunghezza d’onda, durante l’attraversamento del campo gravitazionale solare, è appena avvertibile e corrisponde a circa un miliardesimo di millimetro. Il meccanismo può anche venir considerato da un punto di vista energetico: il raggio luminoso, per sottrarsi al campo gravitazionale deve spendere un po’ della sua energia e subisce un inevitabile “arrossamento”. Gli spettri delle nane bianche esibiscono infatti questo arrossamento in modo molto marcato, ed è quanto nel 1925 ebbe occasione di dimostrare l’Adams che si era interessato al loro studio, da questo punto di vista, dietro suggerimento di Eddington. Vediamo dunque che la teoria attribuisce al nostro Sole un epilogo da “nana bianca” come conseguenza di una fase preliminare di “gigante rossa”. Ma quale sarà l’evoluzione ulteriore di una nana bianca? Essa irradia luce e calore contraendo i suoi involucri gassosi esterni sotto l’incessante azione gravitazionale.

L’interno dell’astro è freddo, oscuro, consistente, quanto un mostruoso cristallo di gelido diamante. Lentissimamente, nonostante la frenetica agitazione del fluido elettronico che si oppone alla contrazione, la nana bianca, con l’accumularsi dei miliardi di anni, si raffredda: si conoscono alcuni vecchi esemplari sui quali la temperatura non raggiunge i 5000°C. Infine l’energia gravitazionale residua da convertire in calore è divenuta così scarsa che la temperatura scende al disotto dei livelli di luminosità percettibile: il relitto si estingue definitivamente e diviene una “nana nera”. Trascorrerà il resto della sua esistenza come una scoria stellare, vagante nei gelidi spazi siderali per l’eternità, o fino a che qualche conflagrazione cosmica ne disperderà la materia inerte rendendola disponibile per successivi atti creativi.

In questa nostra escursione non abbiamo preso in considerazione le fasi finali dell’evoluzione di stelle più massicce del Sole: questo tipo di astri va incontro, infatti, ad avvenimenti ben più radicali che prevedono le fasi altamente drammatiche dell’esplosione totale da supernova, la formazione di stelle di neutroni e, destino estremo, il gorgo finale del buco nero.

 

by Salvatore Pio Passalacqua - Gruppo Astrofili Palermo
 
 

 


La natura della Materia